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febbraio 3, 2012 / Climacter

Lev Nikolaevič Tolstoj, Resurrezione

Il vecchio generale, quando Nechljudov giunse all’ingresso del suo appartamento, era seduto
nel salotto buio davanti a un tavolino intarsiato, e insieme a un giovane pittore, fratello di un suo dipendente, stava
facendo girare un piattino su un foglio di carta. Le dita sottili, umide e deboli del pittore erano intrecciate a quelle dure,
rugose e artritiche del vecchio generale, e quelle mani unite si muovevano a scatti insieme al piattino da tè rovesciato sul foglio di carta, dove erano tracciate tutte le lettere dell’alfabeto. Il piattino stava rispondendo alla domanda del
generale, che voleva sapere come le anime si riconosceranno dopo la morte.

Nel momento in cui un attendente che fungeva da domestico entrò con il biglietto da visita di Nechljudov, per
mezzo del piattino stava parlando l’anima di Giovanna d’Arco. L’anima di Giovanna d’Arco aveva già detto, lettera dopo
lettera, le parole «Si riconosceranno», che erano state trascritte. Quando arrivò l’attendente, il piattino, fermatosi una
volta sulla «p», un’altra volta sulla «o», aveva raggiunto la «s» e si era fermato su questa lettera, dando strappi avanti e
indietro. Dava strappi perché secondo il generale la lettera seguente doveva essere una «l», cioé Giovanna d’Arco
secondo lui doveva dire che le anime si riconosceranno solo «posle», «dopo» la loro purificazione da ogni residuo
terreno o qualcosa di simile, e perciò la lettera seguente doveva essere una «l», mentre il pittore pensava che la lettera
seguente sarebbe stata una «v», che l’anima avrebbe detto che poi le anime si riconosceranno «po svetu», dalla luce
emanata dal loro corpo etereo. Il generale, aggrottando tetro le folte sopracciglia grigie, si fissava intensamente le mani
e, immaginando che il piattino si muovesse da solo, lo tirava verso la «l». Invece il giovane pittore anemico, con i
capelli radi tirati dietro le orecchie, guardava un angolo buio del salotto con i suoi spenti occhi azzurri e, muovendo
nervosamente le labbra, lo tirava verso la «v». Vistosi interrotto nella sua occupazione, il generale fece una smorfia e
dopo un attimo di silenzio prese il biglietto da visita, inforcò il pince-nez e gemendo per il dolore nelle larghe reni, si
levò in tutta la sua alta statura, sfregandosi le dita rattrappite.

– Fallo accomodare nello studio.

– Permetta, eccellenza, che finisca da solo, – disse il pittore alzandosi. – Sento la presenza.

– Va bene, finisca, – disse deciso e severo il generale e si avviò verso lo studio coi lunghi passi decisi e
cadenzati delle sue gambe anchilosate. – Lieto di vederla, – furono le parole cordiali che con voce sgarbata il generale
disse a Nechljudov, indicandogli una poltrona davanti alla scrivania. – È da molto a Pietroburgo?

Nechljudov disse che era arrivato da poco.

– La principessa sua madre sta bene?

– Mia madre è morta.

– Mi perdoni, sono molto spiacente. Mio figlio mi ha detto di averla incontrata.

Il figlio del generale stava facendo la stessa carriera del padre e, finita l’accademia militare, lavorava ai servizi
segreti ed era molto fiero delle mansioni che gli erano state affidate. Le sue mansioni consistevano nel dirigere delle
spie.

– Ma certo, suo padre e io eravamo insieme nell’esercito. Eravamo amici, compagni. E lei, presta servizio?

– No.

Il generale chinò il capo in segno di disappprovazione.

– Avrei un favore da chiederle, generale, – disse Nechljudov.

– Mo-o-o-lto lieto. In che posso esserle utile?

– Se la mia richiesta è fuori luogo mi scusi, per favore. Ma devo rivolgergliela.

– Di che si tratta?

– Da voi è detenuto un certo Gurkevic. Ecco, sua madre chiede un colloquio con lui, o almeno di potergli fare
avere dei libri.

Il generale non manifestò né piacere né dispiacere alla domanda di Nechljudov, ma, reclinando il capo,
socchiuse gli occhi, come se riflettesse. In realtà non rifletteva affatto, e anzi non provava il minimo interesse per la
domanda di Nechljudov, dato che sapeva benissimo che gli avrebbe risposto secondo la legge. Si stava semplicemente
riposando la mente, senza pensare a nulla.

– Vede, questo non dipende da me, – disse quando si fu riposato un po’. -Sulle visite c’è un regolamento
ratificato dall’imperatore, a cui ci si attiene per i permessi. E per quanto riguarda i libri, abbiamo una biblioteca, e
vengono loro dati i libri consentiti.

– Sì, ma lui ha bisogno di opere scientifiche: vuole studiare.

– Non gli creda. – Il generale tacque. – Non è per studiare. Ma così, solo per dar noie.

– Ma come, devono pure occupare il tempo nella loro difficile condizione, – disse Nechljudov.

– Si lamentano sempre, – disse il generale. – Li conosciamo bene. – Ne parlava collettivamente, come di una
razza speciale, inferiore. – Mentre hanno a disposizione delle comodità che si riscontrano raramente nei luoghi di pena, –
continuava il generale.
E cominciò, come per giustificarsi, a descrivere dettagliatamente tutte le comodità messe a disposizione dei
carcerati, come se lo scopo principale di quell’istituzione fosse organizzare un piacevole soggiorno per i suoi ospiti.

– Un tempo era davvero piuttosto duro, ma adesso qui stanno benissimo. Mangiano tre piatti, di cui uno sempre
di carne: polpette o crocchette. La domenica hanno anche un quarto piatto: un dolce. Volesse il cielo che ogni russo
potesse mangiare così.

Il generale, come tutte le persone anziane, una volta azzeccato ciò che conosceva a memoria, diceva le stesse
cose che aveva ripetuto mille volte per dimostrare le loro pretese e la loro ingratitudine.

– Diamo loro dei libri di contenuto religioso e vecchie riviste. Abbiamo una biblioteca di libri adeguati. Ma
leggono raramente. All’inizio sembra che s’interessino, ma poi i libri nuovi restano con le pagine per metà intonse, e
quelli vecchi sempre aperti alla stessa pagina. Abbiamo perfino provato – disse il generale con qualcosa di lontanamente
somigliante a un sorriso, – a metterci apposta un foglietto. Ed è rimasto dov’era. Hanno anche il permesso di scrivere, –
proseguì il generale, – diamo loro una lavagnetta, e anche un gessetto, così possono scrivere per distrarsi. Possono
cancellare e scrivere di nuovo. E anche qui: non scrivono. No, fanno in fretta a calmarsi del tutto. Solo all’inizio sono
irrequieti, ma poi ingrassano perfino e diventano molto tranquilli, – diceva il generale, senza sospettare il significato
terribile delle sue parole.

Nechljudov ascoltava la sua voce rauca e senile, guardava quelle membra irrigidite, gli occhi spenti sotto le
sopracciglia grigie, quegli zigomi rasati e vizzi, da vecchio, puntellati dal colletto militare, la croce bianca di cui
quell’uomo andava fiero soprattutto perché l’aveva ricevuta per un eccidio particolarmente crudele, e capiva che
replicare, spiegargli il significato delle sue parole era inutile. E tuttavia, facendo uno sforzo, gli chiese anche dell’altro
caso, della detenuta Šustova, di cui aveva appena saputo che doveva venir rilasciata.

– Šustova? Šustova… Non ricordo tutti i loro nomi. Sono talmente tanti, – disse, evidentemente rimproverandoli
per quel sovraffollamento. Suonò e ordinò di chiamargli il segretario.
Mentre andavano a chiamare il segretario, esortò Nechljudov a tornare in servizio, dicendo che le persone
oneste e nobili (fra cui ovviamente annoverava se stesso) erano più che mai necessarie allo zar…«e alla patria», –
aggiunse, evidentemente solo per questioni di stile.

– Ecco, io sono vecchio eppure presto servizio, per quanto le forze me lo consentano.

Il segretario, un uomo secco, asciutto, con gli occhi inquieti e intelligenti, venne a riferire che la Šustova era
detenuta in uno strano luogo fortificato e che non era arrivato nessun ordine a suo riguardo.

– Quando arriverà, la rilasceremo il giorno stesso. Noi non li tratteniamo, non ci teniamo particolarmente alla
loro compagnia, – disse il generale con un altro tentativo di sorriso scherzoso, che non fece che storcere il suo vecchio
viso.

Nechljudov si alzò, cercando di non manifestare il senso di ripugnanza e insieme di pietà che provava per quel
terribile vecchio. Il vecchio invece credette di non dover essere troppo severo con quel figlio sventato ed evidentemente
fuori strada del suo vecchio compagno d’armi, e non volle lasciarlo senza un ammaestramento.

– Addio, mio caro, non se la prenda con me, lo dico perché le voglio bene. Stia alla larga dalla gente che è
rinchiusa qui da noi. Non ci sono innocenti. Anzi sono sempre persone oltremodo immorali. Noi li conosciamo, – disse
con un tono che non ammetteva possibilità di dubbio. E forse non ne dubitava, non perché così fosse, ma perché se non
fosse stato vero avrebbe dovuto considerarsi, anziché un eroe venerabile che concludeva degnamente una vita onesta,
una canaglia che aveva venduto e anche nei suoi ultimi anni continuava a vendere la coscienza. – Presti servizio
piuttosto, – continuava. – Allo zar sono necessarie le persone oneste… e alla patria, – aggiunse. – E se io e tutti quelli
come lei non prestassimo servizio? Chi rimarrebbe? Ecco, noi critichiamo gli ordinamenti, ma non vogliamo aiutare il
governo.

Nechljudov trasse un lungo sospiro, fece un profondo inchino, strinse la grande mano ossuta che il generale gli
tendeva con degnazione e uscì dalla stanza.

Il generale scosse il capo in segno di disapprovazione e, massaggiandosi le reni, tornò in salotto, dove
l’aspettava il pittore, che aveva già scritto la risposta ricevuta dall’anima di Giovanna d’Arco. Il generale si mise il pincenez
e lesse: «Si riconosceranno dalla luce emanata dai corpi eterei».

– Ah, – approvò il generale, chiudendo gli occhi. – Ma come si fa a riconoscersi, se la luce è uguale per tutti? –
domandò e, intrecciate di nuovo le mani col pittore, si sedette al tavolino.

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